Inizia domenica, con l’Anteprima Le città invisibili, il ciclo di incontri letterari La Città invisibile, organizzata dalla Libreria Carta Bianca in collaborazione con la Fondazione Rocca dei Bentivoglio.

 

Nel giardino della famiglia Garagnani, a Bazzano, Filippo Plancher leggerà alcuni brani tratti da Le Città invisibili di Italo Calvino.

 

Vi proponiamo un’approfondimento sull’opera firmato dal nostro bibliotecario, Andrea.

 

Le Città invisibili è un romanzo pubblicato da Italo Calvino nel 1972.
In quel periodo l’autore si trova in una fase creativa influenzata dalle teorie della semiotica, dello strutturalismo e della tecnica combinatoria applicata alla letteratura. Un influsso determinato dalle lezioni parigine di Roland Barthes, dalla frequentazione del gruppo di Raymond Queneau (l’OuLiPo, ovvero “Officina di Letteratura Potenziale”), dallo stile di Jorge Luis Borges e dalla rilettura del Tristram Shandy di Sterne.

La storia a prima vista sembra ispirata ai racconti delle Mille e una Notte. L’imperatore dei Tartari, Kublai Khan, interroga Marco Polo affinché gli descriva le città del suo immenso dominio, che il mercante veneziano ha visitato durante i suoi viaggi. Perciò a ogni capitolo corrisponde la descrizione di una città, e i capitoli sono organizzati secondo uno schema preciso che va dalle “città e la memoria” alle “città nascoste”.

Questo consente al lettore di giocare liberamente con le classificazioni, procedendo per categorie o inventando a piacere un proprio ordine di lettura. A questo proposito lo stesso Calvino aveva affermato in una conferenza alla Columbia University nel 1983 che non esiste un solo finale della storia perché “il libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”.

Attraverso un elenco di luoghi dai tratti esotici, surreali e spesso dichiaratamente allegorici, in quest’opera, come anche nel precedente Il castello dei destini incrociati, Calvino tratta uno dei punti essenziali della sua poetica: viene proposta infatti una concezione di romanzo inteso come meccanismo che gioca artificialmente con le possibili combinazioni del linguaggio.

Da ciò scaturisce una riflessione dalle conseguenze importanti. Se in ultima analisi il linguaggio definisce la nostra percezione della realtà, allora è come dire che definisce integralmente la realtà stessa e quindi si può dire che la crei.
Non per niente il dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan assume presto una sfumatura filosofica dalle implicazioni vertiginose. Le città di cui Marco parla, così bizzarre e sfuggenti da comprendere, esistono veramente? In tutte le descrizioni del viaggiatore appaiono sempre immagini e simboli diversi, che però si ripresentano al lettore con frequenza regolare. Sono i simboli del doppio, dello speculare, del cangiante contrapposto allo statico, che si replicano continuamente come nella geometria dei frattali.

A un certo punto il Khan dubita persino di possedere un regno, e suppone che tutto ciò che percepisce, compreso il suo interlocutore, possa essere nient’altro che un sogno. In seguito pensa di poter controllare la sua visione della realtà adottando come schema interpretativo il gioco degli scacchi: acuta intuizione sulla naturale tendenza dell’essere umano a servirsi del gioco per cercare un ordine nelle cose, specialmente quando le proprie sicurezze vacillano. Ma Marco Polo gli mostra come la scacchiera, così regolare in apparenza, è ricca a sua volta di segni che rimandano a un sistema di innumerevoli cause ed effetti… E così le discussioni tra i due personaggi sulle definizioni di ciò che è reale e cosa no e sulle caratteristiche visibili (o invisibili) delle fantastiche città raccontate da Marco Polo continuano, sorrette dallo stile pulito e dall’ironia leggera tipici di Calvino.

Nel finale però l’autore pare allontanarsi da questa dimensione di gioco intellettuale, con una conclusione che scioglie con un semplice richiamo al senso di umanità la materia complessa presentata nel corso della narrazione. Per Calvino infatti linguaggio ed immaginazione possono forse inventare interi mondi ma non risolvere definitivamente l’enigma (o il caos) che vi viene generato.

Nell’atlante di Kublai Khan si spalancano così le mappe meravigliose delle terre promesse dell’Utopia e per contrapposizione quelle delle città infernali, la cui minaccia nei confronti dei viventi pare molto più concreta delle visioni fantastiche mostrate fino a quel momento. L’unico modo per contrastarla, secondo una felice citazione che è stata poi spesso utilizzata come espressione d’impegno civile, è “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

 

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