Arcipelago – Nessuno è veramente un’isola è il concorso artistico riservato agli artisti esordienti che, per volere e col sostegno della famiglia Biagi, da sette anni si tiene in Valsamoggia in ricordo di Gustavo Biagi. Il contest ha lo scopo di valorizzare e dare spazio ad artisti emergenti, consentendo di esporre le proprie opere all’interno di una mostra.

La mostra con le opere dei vincitori e delle vincitrici di questa ottava edizione è visitabile dal 7 al 22 settembre 2024 alla Rocca dei Bentivoglio.

Scopri il progetto

Per conoscere meglio l’arcipelago artistico creato dai vincitori e dalle vincitrici di quest’anno, siamo andati ad esplorare i mondi che compongono questo insieme di isole umane.

Oggi conosciamo Giampaolo Parrilla che esplora i temi della violenza e dell’ambiguità dell’immagine, il rapporto tra vita quotidiana e catastrofe, la narrazione collettiva e la connessione tra la fragilità del corpo e il potere tecnologico artificiale, attraverso strumenti geopolitici.

 


 

Essere esordienti significa praticare, con qualunque tecnica e qualunque espressione, la fantasia e l’immaginazione con responsabilità, senza avere come meta o scopo unico e ultimo, il mercato. Esordire deriva dal latino “exordiri”, che in origine significava «cominciare a tessere». Quando hai cominciato, per la prima volta, “a tessere”?

La mia prima esperienza significativa nell’ambito della pratica artistica e dell’immaginazione responsabile si è concretizzata durante un progetto biennale di teatro e migrazione, presso l’ITC Teatro di San Lazzaro di Savena, in collaborazione con UNHCR. Questo progetto ha coinvolto oltre 50 giovani rifugiati politici e richiedenti asilo, e si proponeva di sviluppare un reportage visivo e un’opera teatrale, successivamente trasformato in una graphic novel intitolata L’Eredità di Babele, pubblicata da Nuova S1 Edizioni.

Sotto la cura di Lorenzo Cimmino, questo progetto ha rappresentato per me una prima, concreta occasione di avvicinarmi con interesse e rigore ai temi della pluralità delle narrazioni, alle storie traumatiche delle migrazioni e alla loro rielaborazione. Ho esplorato diversi modi di concepire la realtà e le potenzialità rivoluzionarie dell’immaginario collettivo. L’intento era di raccontare il complesso intreccio tra l’ascolto, il linguaggio della prevaricazione e il ritorno all’unica lingua comune a tutti: il silenzio.

Questa esperienza si è rivelata estremamente proficua e densa, e mi ha permesso di identificare e riconoscere una pluralità di visioni e narrazioni nella crisi, tutte necessariamente valide in un contesto globale multipolare. Questo processo ha arricchito la mia comprensione della complessità delle dinamiche culturali, geopolitiche e sociali che caratterizzano il nostro tempo, e la volontà di volerle esplorare attraverso il medium pittorico.

 

Come ci insegna Arcipelago, nessuno è veramente un’isola. Cosa significa per te questo concetto?

Mai come oggi, la connessione globale tra individui, stati, gruppi sociali, e sistema dell’informazione è stata così evidente. Viviamo immersi in una costante mole di dati, informazioni talvolta inaffidabili, non verificate, o frutto di credenze collettive sistemiche, che influenzano inevitabilmente la nostra percezione e comprensione del mondo. Questa proliferazione di dati e collegamenti, a cui possiamo sentirci affini in modi diversi, ci offre una miriade di possibilità di relazione con ogni evento.

Ritengo che oggi sia fondamentale interrogare il concetto di “arcipelago” come metafora per descrivere la comunità. In questo senso, la comunità vista come un’entità collegata ma sommersa, inoperosa, non definita da un obiettivo comune o da un’unità predeterminata di
discorso o narrazione, ma piuttosto dall’esposizione e dalla condivisione delle differenze tra i suoi membri. Questo idea credo sia ad oggi fondamentale per comprendere la collaborazione tra gruppi sociali, promuovendo un’interazione aperta e continua, senza richiedere necessariamente una fusione o un’omogeneità tra i partecipanti.

Ogni individuo, come un raggruppamento di isole ravvicinate, è una singolarità che fa parte però di un pluralismo più ampio, il quale può emergere in determinati contesti o rimanere latente per lungo tempo. In questo quadro, ciascun individuo contribuisce alla creazione di un “mondo comune”, che non è qualcosa di statico e dato una volta per tutte, ma che si costruisce costantemente attraverso la condivisione e l’interazione tra individui e gruppi. Questo mondo comune è il risultato di una continua negoziazione di narrazioni singolari e collettive, in cui il senso del mondo emerge in seguito dall’alto, dalla pluralità delle esperienze e delle prospettive.

Nella mia ricerca mi interessa raccogliere questi processi dinamici dei tessuti sociali, le loro produzioni di immagini, simboli, e credenze collettive, che spesso si costruiscono tramite conversazioni, interviste sul campo, e vario materiale condiviso sui social. In termini di processo pittorico, ciò suggerisce una pratica non fissa, ma uno sviluppo dinamico che si costruisce attraverso il dialogo e la co-creazione continua, in cui confluiscono più generi nell’ambito della stessa immagine.

 

Ci racconti una delle tue opere che vedremo in mostra?

Questa serie di opere nasce da un’attenta ricerca condotta su numerosi canali Telegram e profili fantasma su TikTok, che documentano i conflitti bellici in corso, diffondendo immagini e video catturati da bodycam dei soldati impegnati in contesti di guerriglia urbana. Questi materiali, spesso registrati e diffusi dagli stessi soldati, offrono prospettive inedite e crude sulla realtà dei conflitti, arricchendo il panorama informativo con nuove e inconsuete visioni.

Un fenomeno particolarmente interessante è l’interpretazione che la popolazione digitale attribuisce a questi contenuti. In molti casi, gli utenti iniziano a speculare sulla possibile presenza di superstiti nascosti all’interno di case o veicoli assaltati, basandosi su ombre e movimenti indistinti catturati nei video. Queste ombre, percepite come presenze umane, alimentano narrazioni fantasiose e non verificate, trasformando tragedie reali in contenuti virali caratterizzati da un’aura di mistero, speranza e speculazione.

Questa dinamica non solo rivela molto sulle rispettive propagande di guerra, ma offre anche una finestra vivida sui racconti dei soldati, dei civili e degli analisti coinvolti. Le storie personali si mescolano a narrazioni collettive, creando un mosaico complesso e stratificato di significati e interpretazioni.

Durante una residenza artistica svolta in Cina nell’ottobre scorso, ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con artisti israeliani, ucraini e russi, che mi hanno indirizzato verso vari canali Telegram, siti di propaganda e piattaforme governative dove è possibile reperire contenuti riguardanti i conflitti in corso, in costante aggiornamento. Oggi, questi contenuti sono facilmente accessibili sul web, sebbene la loro diffusione presenti seri rischi, soprattutto per quanto riguarda l’esposizione a immagini violente e non filtrate.

Questa ricerca e l’esperienza maturata nel corso della residenza hanno arricchito il mio lavoro, permettendomi di esplorare le dinamiche della propaganda, la manipolazione delle informazioni e l’impatto psicologico che questi contenuti possono avere sull’opinione pubblica.

 

Ci sono dei contesti sonori che si sposano bene alle tue creazioni?

Se dovessi proporre una serie di canzoni che ascolto e che possano ben collegarsi alla mia ricerca, suggerirei principalmente il panorama elettronico Dark Ambient, in gruppi come Jef Mertens, Slobodan Kajkut, Z’EV, Nick Parkin. Sono inoltre un grande fan di Art Tatum, Thelonious Monk e The Prodigy.