A una settimana dalla scomparsa di Paolo Villaggio, ricordiamo il maestro con un tentativo di analisi celebrativa del suo personaggio più popolare: Fantozzi

La scorsa settimana ci ha lasciati Paolo Villaggio, artista poliedrico e geniale, troppo spesso dileggiato, forse perchè non capito, o portato ad esempio di una comicità, basata su battute semplicistiche e stereotipi, che in realtà non gli apparteneva.

Era un uomo di cultura, che utilizzava l’umorismo e il paradosso come strumenti di satira sociale. La sua produzione spazia dai libri al cinema, passando per la musica: grande amico di Fabrizio De Andrè, collaborò con lui alla stesura di alcuni testi, come quello di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, pezzo ricordato da molti come una buffa canzonetta divertente, che nasconde però una critica serrata al potere con cenni di antimilitarismo.

Nei suoi personaggi, tra i quali citiamo il professor Kranz e il patologico Giandomenico Fracchia, sono ricorrenti i tratti grotteschi ed esageratamente assurdi: la sua creazione più famosa è sicuramente quella del ragionier Ugo Fantozzi, divenuto poi protagonista di numerosi racconti e film.

Questo articolo vuol essere un piccolo tentativo di rendere giustizia e dignità a colui che è divenuto l’emblema della mediocrità, il simbolo dell’italiano sopraffatto, perdendo però col tempo il significato storico e sociale per cui era stato concepito: vogliamo insomma ridare alla maschera Fantozzi la sua funzione esorcizzante.

 

Fantozzi era un libro

“Io non so scrivere in italiano. Nel parlare mi arrangio, anche perché astutamente sposto sempre la discussione su cinque argomenti già collaudati: il passaggio dal socialismo al comunismo, nuovi esempi di cinema underground americano, il secolo di Luigi XIV, magia e ipnotismo, sud-est asiatico. Non sono ancora “franato” sull’astrologia, ma una volta ho parlato per un’intera sera di Godard, ma sinceramente l’ho fatto solo quella volta, ed ero quasi ubriaco.”

Con questa introduzione all’edizione del 1971 di Fantozzi edita da Rizzoli, Paolo Villaggio si presentava con il suo biglietto da visita: un’ironia che si faceva beffe dei luoghi comuni, sposata a un gusto fortissimo per l’affabulazione.

In occasione della sua recente scomparsa si sono moltiplicati i tributi di affetto e di stima per l’opera di un artista che ha segnato profondamente l’immaginario italiano degli ultimi decenni. Ripercorrendo alcuni punti salienti di una lunga carriera è interessante riscoprire come Villaggio sia stato un autore e un intellettuale, oltre che un uomo di spettacolo.

Il ragionier Ugo Fantozzi, “prototipo del tapino e quintessenza della nullità”, come lo definiva lui, inizia a vedere la luce nella raccolta di racconti pubblicati sull’Europeo e tratti dai suoi monologhi degli esordi, recitati nei cabaret o nelle prime partecipazioni televisive. Il libro dedicato al tragicomico e sfortunatissimo impiegato risulta un immediato fenomeno editoriale, bissato dopo pochi anni da un seguito. Dopo il grande successo dei libri (oltre un milione di copie vendute nel corso degli anni), tocca al grande schermo: nel 1975 Fantozzi appare nei cinema, per diventare per sempre la maschera immortale di cui tutti ridiamo e in cui temiamo a volte di riconoscerci.

Sul Fantozzi letterario molto è stato detto. Qui basta ricordare il suo stile particolare: volutamente semplificato, grossolano, costellato di espressioni divenute poi popolari e che rimandano a un mondo impiegatizio dai tratti abnormi, con i suoi mega-direttori galattici, naturali e laterali, le poltrone in pelle umana, le crocifissioni in sala mensa. Allo stesso modo, associato all’universo di Fantozzi, è rimasto proverbiale l’uso continuamente sbagliato dei congiuntivi, che mette in risalto la miseria culturale e morale di personaggi che si dibattono per imitare le maniere delle classi sociali “superiori”, dalle quali si sentono esclusi e vessati. Questo lessico forse sulle prime comunica un’impressione triviale, ma poi è capace di impennarsi improvvisamente con iperboli esagerate e immagini spiazzanti. Che si tratti di craniate pazzesche, di pomodorini “a 18.000 gradi!”, della più spaventosa caccia all’uomo degli ultimi 120 anni o di nomi improbabili come i Pier Ugo Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, si viene colpiti da invenzioni così surreali che sono in grado di farci trovare plausibili nella stessa frase la risata feroce e l’attimo di commozione.

L’accostamento di un registro umoristico e grottesco a un altro più profondo, patetico-tragico, è sicuramente un elemento tipico del meccanismo comico, ma in questo caso si può ipotizzare un collegamento con la predilezione che Paolo Villaggio aveva per la letteratura russa. Attraverso le sue caricature ci parla infatti di un’umanità sconfitta e umiliata, che quasi ha persino timore di sognare una rivincita nei confronti di un regime oppressivo e ottuso. In questo ritroviamo alcuni caratteri simili a certi personaggi dolenti creati da Dostoevskij, Tolstoj o Gogol.

E forse non è un caso che in Russia i libri di Fantozzi siano stati tanto tradotti e apprezzati: viene citato spesso l’aneddoto del poeta Evgenij Evtushenko che, intervenuto a un convegno della Fondazione Cini a Venezia, dichiarò tra lo stupore dei presenti (Moravia, tra questi) che Villaggio fosse l’unico tra gli scrittori italiani a essere riconducibile a Gogol.

Il Fantozzi della pagina stampata è quindi importante quanto quello cinematografico, e ha contribuito non poco alla realizzazione del successo di quest’ultimo.

 

Fantozzi sullo schermo e il “misfatto” del Potëmkin

Fantozzi viene portato sul megaschermo nel 1975 e ad interpretarlo è ovviamente il suo creatore, Paolo Villaggio, con la regia è di Luciano Salce.

Gli altri interpreti sono Liù Bosisio (la moglie Pina, per i primi due film), Anna Mazzamauro (la signorina Silvani, di cui Fantozzi si invaghisce in modo improbabile), Plinio Fernando (a impersonare l’orribile figlia Mariangela) e Gigi Reder nel ruolo del Rag. Filini (altro personaggio entrato nell’immaginario comune:  “organizzazione Filini” si usa per indicare eventi malriusciti o pieni di contrattempi che normalmente sarebbero stati ampiamente prevedibili).

Dal punto di vista cinematografico, è innegabile la superiorità dei primi due film, Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976), entrambi di Luciano Salce, rispetto a tutta la produzione successiva, che inizia a cadere nella logica di mercato del far ridere di più e pensare di meno.

Uno degli episodi che più rimangono nella storia e nell’immaginario fantozziano e la celebre scena del Potëmkin, anzi del Kotiomkin, perchè per problemi di copyright Villaggio aveva dovuto modificare il nome: cambiamento che è venuto incontro al suo intento di fare satira, in quanto il film che gli impiegati sono costretti a sorbirsi nel cineforum aziendale è un pesante mattone da “18 bobine”, quando invece il capolavoro di Ėjzenštejn dura poco più di 70 minuti, con un ritmo serrato e un uso del montaggio all’avanguardia.

Sottoposti, appunto, a una sessione di “cultura forzata” da parte dell’insopportabile prof. Riccardelli, proprio la sera di Italia-Inghilterra, gli impiegati trovano la loro voce liberatoria e la miccia della rivolta nel grido trionfante di Ugo Fantozzi: “Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”. Affermazione esagerata, che, così come i “92 minuti di applausi” che ne seguono, sono funzionali a un’ironica presa in giro di un’intellettualismo falso, pieno di luoghi comuni e imposto dall’alto, ma non si esaurisce certamente in questo.

Il messaggio che purtroppo è sopravvissuto, almeno nel ricordo comune, è il rifiuto di una cultura alta in nome del divertimento popolare, la convinzione che un certo tipo di prodotto debba per forza essere difficile, elitario, noioso.

Certamente l’intento di Villaggio non era questo: per quanto i toni siano satirici, non è La corazzata Potëmkin il bersaglio della sua critica, bensì lo strapotere della multinazionale, che schiaccia i deboli e si impadronisce di tutto, persino delle idee del popolo, dei prodotti di una cultura diversa, impossessandosi anche di un film così poco capitalista (una pellicola di propaganda comunista!) e pretendendo di dispensarlo obbligatoriamente ai suoi sottoposti.

Il punto non è quindi la negazione del valore del prodotto colto, “pesante”, ma il pubblico medio di oggi identifica questo episodio come la ribellione di un mediocre all’intellettualismo difficile. Perchè, citando Wu Ming: “una parodia colta, una volta esaurito il contesto in cui era stata pensata e realizzata, diventa il proprio opposto, generando un interdetto qualunquista e anti-culturale”

Villaggio lo sapeva benissimo che La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca e forse, diversamente da quello moderno, lo spettatore dell’epoca l’aveva capito. Fortunatamente ci troviamo in un momento storico in cui chi vuole acculturarsi, chi lo vuole veramente, ha a portata di mano tutti i mezzi necessari per farlo.

Per cui, acculturatevi! E non sarebbe male iniziare con la visione de La corazzata Potëmkin!

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