In occasione della celebrazione del 25 aprile, il nostro Andrea ha intervistato Daniel Degli Esposti, autore di “Radici di futuro”, il libro che sarà presentato venerdì 21 aprile, ore 20.30, alla Rocca dei Bentivoglio di Bazzano.

Radici di futuro è l’ultima opera del giovane autore, appassionato di storia del nostro territorio, che ha già trattato il tema della II Guerra Mondiale nei suoi precedenti scritti.
Lo abbiamo incontrato per conoscerlo meglio e farci raccontare come nasce il progetto di Radici di futuro:
Daniel Degli Esposti è ormai un nome noto agli appassionati di storia del nostro territorio. Puoi parlarci brevemente del tuo percorso di formazione e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto alla ricerca storica?

Nel 2012 mi sono laureato in Scienze storiche all’Università di Bologna con una tesi sull’importanza sociale del basket in città tra il fascismo e la ricostruzione del secondo dopoguerra. Ho coltivato soprattutto gli studi sulla storia contemporanea, che avevo iniziato durante il corso triennale. La sfida di capire come gira il mondo di oggi mi ha sempre stuzzicato: nella storia ho cercato risposte ai problemi del presente e le ho trovate, sempre intrecciate a nuove domande. Più approfondivo, più la curiosità mi germogliava dentro. Quando sono entrato nel Gruppo di documentazione vignolese Mezaluna-Mario Menabue, ho capito che la storia locale offre una prospettiva indispensabile per capire gli eventi nazionali, europei e mondiali. Ho cominciato le ricerche con un approccio “g-locale”, connettendo le Terre di Castelli ai contesti più ampi, e ho fatto di tutto per trasformare la mia passione in un lavoro. Direi che ci sono riuscito! Dopo le prime pubblicazioni ho iniziato a collaborare con l’Istituto storico, ma ho continuato anche a formarmi ottenendo un Master di secondo livello in Public History all’Università di Modena. Oggi costruisco progetti di ricerca storica insieme a Comuni, istituti scolastici e associazioni culturali, concentrandomi sempre sulla trasmissione delle conoscenze al pubblico.

 

Hai già all’attivo diverse pubblicazioni che trattano della II Guerra Mondiale e della Lotta di Liberazione. C’è un filo che le unisce?

Sì, è la voglia di avvicinare quegli eventi alla mia generazione. I miei primi 25 aprile consapevoli sono stati caratterizzati dalla forza del revisionismo: sempre più persone si fidavano di argomenti che mi sembravano del tutto privi di fondamento, ma parlavano alla pancia di chi si sentiva escluso dalla Festa della Liberazione. Come potevo contrastare le menzogne? Col passare del tempo e degli studi mi sono reso conto che la memoria della Resistenza, per sopravvivere e farsi capire, aveva bisogno della storia. Oggi il mito dell’eroe non è più credibile, neppure in riferimento alla figura del partigiano, ma gli anni dell’occupazione nazista parlano di noi: le ricerche storiche possono raccontare quelle vicende riportando l’attenzione al momento in cui tutto era incerto. Sentiamo tante volte qualcuno che grida la parola “clandestino”, però fatichiamo a immaginare che ragazzi come noi sono stati costretti a vivere da clandestini per aver rifiutato di combattere dalla parte di Hitler e Mussolini. Vediamo spesso immagini di bombardamenti: ci sembrano lontane e asettiche, ma 72 anni fa le macerie riempivano le nostre strade e costringevano gli italiani a scappare come sfollati. Oggi forse li chiameremmo “profughi”. Queste scintille di collegamento fra il passato e il presente mi incoraggiano a ricostruire quanto più fedelmente possibile gli scenari di Ieri, perché le gioie e i problemi di Oggi non sono comparsi stamattina… Le loro radici affondano nelle azioni di chi ci ha preceduto: per questo “entrare” quelle persone e quei fatti attraverso lo studio mi sembra l’unico modo possibile per capirli meglio.

 

Stai per presentare il tuo ultimo libro, “Radici di futuro”, in occasione delle celebrazioni del 25 Aprile. Vuoi darcene un’anteprima?

Volentieri! Le memorie delle guerre mondiali e della Resistenza pervadono la valle del Samoggia. Cippi, lapidi e monumenti raccontano una quotidianità distorta dalla violenza e segnata dall’urgenza delle scelte. Nell’era digitale, però, le epigrafi del Novecento sbiadiscono sempre di più, levigate dal tempo: neppure gli sforzi degli ultimi testimoni possono risvegliare le loro voci di pietra. Per comprendere i loro messaggi serve c’è bisogno di uno sguardo storico, che legge lo scorrere del tempo nei cambiamenti dello spazio e non perde la complessità della memoria.

 

In quest’opera c’è una storia che ti ha toccato particolarmente? E perché?

È difficile sceglierne una sola, perché le storie toccanti sono tante. Forse quella che mi ha emozionato e fatto pensare di più è quella di Antonio Dosi, un partigiano romagnolo che ha fatto la Resistenza nella valle del Samoggia ed è morto in uno scontro a fuoco al ponte di Mercatello (Castello di Serravalle). I documenti ufficiali liquidano la sua vicenda in poche righe: all’inizio pensavo che fosse un episodio secondario, ma Marc Bloch mi ha insegnato che la storia è la scienza degli uomini nel tempo. Perché non provare a sentire cosa raccontavano i suoi compagni di brigata? Sui libri di memorie, nelle interviste realizzate a partire dagli anni Settanta e nei colloqui che ho avuto con Lino Donini ho scoperto una storia diversa: Antonio è morto perché, nel corso di una missione, indossava una divisa tedesca. All’altolà di un compagno non ha risposto: chissà, forse non ricordava la parola d’ordine… forse non ha sentito… forse era troppo concentrato sull’assalto che doveva compiere… Ma il fuoco amico lo ha falciato. Inevitabilmente, perché all’apparenza non era diverso da un tedesco. Quel tipo di fine spiega perché il suo cippo è più sobrio degli altri: il dolore per una morte fortuita non riusciva a innescare la forza narrativa dell’epica resistenziale.

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